3 settembre 2010

Le donne-ponte tra sindacato e comunità

di Sabrina Marchetti

Congresso Nazionale Acli Colf 2009
«"Io" ero il ponte». Così, in quattro parole, Miryam Fuentes sintetizza il suo ruolo all'interno della relazione fra il sindacato e i gruppi di donne migranti, all'inizio della sua carriera alla Cisl. Infatti, andando addietro nel tempo, a inizio anni Novanta, era lei che, come prima ed unica donna migrante nel suo sindacato, ricopriva concretamente il ruolo del "ponte", del tramite, ossia, fra questi due mondi. Una vera pioniera, quindi, nella gestione di una non facile doppia-presenza: dentro al sindacato per l'appunto e dentro l'allora nascente movimento delle donne migranti in Italia, per il suo ruolo nell'associazione No.Di.

 Se si parla tuttavia, di rappresentare all'interno delle organizzazioni dei lavoratori le istanze delle donne immigrate, delle domestiche in particolare, la situazione oggi rispetto ai primi anni Novanta appare significativamente diversa[1]. Sia la Cgil che la Cisl e le Acli-colf, possono oggi contare sulla presenza di donne straniere nei propri ranghi un po' a tutti i livelli, a partire dagli sportelli sul territorio, fino alla dirigenza, passando per Patronati (rispettivamente Inca, Inas e Mondo-colf). Si tratta, inoltre, come tengono in molte a precisare, di una inclusione nel senso vero del termine, in cui alle sindacaliste straniere non si chiede di rappresentare soltanto gli interessi delle lavoratrici immigrate, ma quelle delle lavoratrici in quanto tali. E' in quest'ottica che un Rapporto Ires la seguente affermazione di uno degli stranieri partecipanti ad un corso di formazione Cgil: «Noi siamo qui per formarci non come rappresentanti degli immigrati, ma come sindacalisti della Cgil» (Ires, 2006, p.49).

Eppure, quella della donna migrante come "ponte" è una posizione tutt'altro che facile. Lorna Gancia (Acli-colf) mi racconta quanto sia difficile e delicato il tentativo di coinvolgere le sue connazionali filippine nelle attività del locale Circolo Acli. La difficoltà maggiore è ovviamente costituita dalla mancanza di tempo libero di queste donne, spesso impiegate full-time nelle famiglie italiane. Nessuna sorpresa quindi, se la domenica, unico giorno libero, le donne filippine di Como preferiscono ritrovarsi nell'ambiente racchiuso e familiare della parrocchia piuttosto che in un circolo Acli, fatto che rappresenterebbe per certi versi una fuoriuscita dalla comunità originaria e la rinuncia ad importanti attività socio-ricreative con i propri connazionali.  Ciò è tuttavia ragione di frustrazione per donne che, come Gancia, hanno fatto un percorso d'integrazione in organizzazioni (tradizionalmente) italiane e che vedono le proprie connazionali riluttanti nel fare lo stesso e continuare a preferire un associazionismo di tipo "mono-etnico".
Rappresentanti quindi delle donne migranti nelle associazioni di lavoratori, ma spesso "abbandonate" dai propri connazionali, le donne-ponte si trovano in una posizione decisamente problematica. E' per questo motivo, probabilmente, che le attiviste nei gruppi di donne migranti non sempre le vedono di buon occhio. Alcune attiviste migranti da me intervistate giudicano infatti abbastanza raro il caso in cui sindacaliste migranti riescano effettivamente a fare da anello di congiunzione fra i due mondi, quello delle organizzazioni dei lavoratori e quello della migrazione. Eccezion fatta per alcuni casi, infatti, la figura della migrante nel sindacato viene vista piuttosto come funzionale ad una logica di inclusione "tokenista". In sostanza, il sindacato includerebbe queste persone solo per accentuare la propria immagine di organizzazione inclusiva, aperta alle differenze, invece che per avere una reale connessione con il movimento delle donne migranti. Il risultato però sarebbe, sempre nell'opinione di queste attiviste, addirittura il contrario: è proprio nel momento in cui dice di aprirsi verso le istanze delle donne migranti che il sindacato diventa, in realtà, sempre più chiuso.
La contrapposizione di queste posizioni ci  interroga sul significato della parola "rappresentanza" nel caso particolare in cui essa si applichi alle istanze delle donne straniere in Italia. Sulla base delle interviste raccolte, sembra che quando alcuni attivisti stranieri parlano dei "migranti in Italia" quello che hanno in mente è un mondo costituito da una pluralità di diverse "comunità". Queste comunità sarebbero i vari gruppi che in modo più o meno formale si ritrovano assieme sulla base della condivisione di uno stesso credo, una stessa regione di provenienza o di uno stesso network di relazioni (iniziate in Italia o già nel paese di origine), ecc.  Infatti, ad ogni nazionalità di stranieri presente in Italia corrispondono un certo numero di comunità che sono spesso formalizzate in associazioni e che intrattengono, a seconda dei casi, dei rapporti con le rappresentanze diplomatiche del loro paese e con le istituzioni italiane stesse. E' in tale contesto che queste associazioni sono spesso interpellate a parlare "al posto di" tutto il gruppo nazionale. Dal punto di vista delle attiviste di cui sopra, è di cruciale importanza che coloro che hanno accesso a contesti dominati da Italiani siano in grado di "rappresentare" le donne migranti nel senso di essere in grado di "dar voce all'opinione della propria comunità". 
Tuttavia, non è questo il significato attribuito alla rappresentanza da alcune dirigenti delle organizzazioni di lavoratori che ho avuto  modo di intervistate. Per esempio, Raffaella Maioni, presidente Acli-colf, si dice scettica nel considerare le comunità come principale, se non unico, canale di accesso ai bisogni e gli interessi di un certo gruppo nazionale.  Assieme ad una certa diffidenza rispetto alla procedura che porta alcuni migranti ad essere i rappresentanti di tutti gli altri, Maioni esprime anche preoccupazione sulla mancanza di un effettivo coordinamento delle organizzazioni di migranti, la loro litigiosità interna e le divisioni spesso insanabili, in cui può essere trascinata la stessa organizzazione di lavoratori qualora le sia chiesto di schierarsi con una fazione piuttosto che un'altra.
Forse per evitare la problematicità dello scenario eventualmente innescato dall'alleanza con certe comunità piuttosto che altre, le sindacaliste italiane spesso preferiscono bypassare le associazioni di donne immigrate e instaurare una relazione con singole lavoratrici straniere su base individuale. In tal senso, Lilli Chiaromonte (Cgil) spiega l'importanza del fatto che la sua organizzazione sia capace di rispondere ai bisogni delle migranti come soggetti singoli che, in quanto lavoratrici, devono avere accesso alle informazioni e alle attività che il sindacato può loro fornire. Il sindacato, così come le Acli-colf, hanno d'altronde l'esigenza di rapportarsi alle singole lavoratrici che si avvicinano ai loro sportelli sul territorio (o ai patronati) e che non sono coinvolte nell'attività di nessuna comunità poiché, come spesso accade alle lavoratrici domestiche, conducono una vita abbastanza isolata. A dimostrazione di ciò, si porta l'esempio del fatto molte di queste lavoratrici arrivano al sindacato attraverso canali diversi dal passa-parola fra connazionali e, non da ultimo, su sollecito dei datori di lavoro italiani.
Alla luce di quanto detto finora, il ruolo della donna migrante come persona-ponte dentro il sindacato in quanto rappresentante delle istanze del movimento dei migranti, deve essere riconsiderato. Riconoscere a queste donne una funzione sicuramente importante nell'armonizzazione delle politiche in materia di migrazione, lavoro e cittadinanza sociale, non deve equivalere a vedere in loro unicamente le  "rappresentanti" delle lavoratrici straniere. A ben guardare, infatti, vedere nelle donne straniere le depositare della funzione di "ponte" sembra difatti, in ultima istanza, non rispondere al desiderio e alle esigenze ne' del movimento delle donne migranti, ne' a quello delle organizzazioni dei lavoratori.



[1]Questo articolo è tratto da una breve inchiesta sulla relazione fra organizzazioni dei lavoratori e associazionismo migrante basata su interviste da me condotte, a Roma, nella primavera 2010. La ricerca è stata finanziata dall'Università di Kassel – International Centre for Decent Work