3 settembre 2010

'Badanti' al tempo della crisi

di Raffaella Sarti - Università di Urbino
Giugno 2010

«Nello spazio aperto della casa»[1]... Se si guarda allo spazio domestico non come ambito privilegiato di relazioni familiari, intimità e privacy ma come sede di rapporti di lavoro, esso, lungi dall’apparire chiuso e ripiegato su se stesso, si presenta aperto a ‘penetrazioni’ dall’esterno: un’arena attraversata da una sorta di frontiera lungo la quale si incontrano e scontrano persone spesso diverse quanto a luogo di origine e classe sociale. Analizzarlo in questa prospettiva è a mio avviso fruttuoso[2]. Una prospettiva praticabile nelle case dove i lavoratori domestici operano e, indirettamente, anche nelle loro stesse case, perché i rapporti con i datori di lavoro implicano conflitti di culture, appropriazioni di stili di vita, flussi di beni che mettono in relazione gli universi culturali e materiali degli uni e degli altri.

Negli ultimi anni, l’esplosione del ricorso a colf e ‘badanti’ straniere ha esteso a molte famiglie l’esperienza dello spazio domestico come luogo aperto a confronti e scontri, tanto che oggi c’è uno stridente contrasto tra il rifiuto degli immigrati manifestato da una parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche e la realtà dei tanti italiani che aprono l’intimità della propria casa a lavoratrici/tori straniere/i[3].

Per molti versi, il ‘nuovo’ lavoro domestico e di cura ha sovvertito la configurazione dei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore che si era sedimentata nel tempo e che, tipicamente, prevedeva un rapporto tra due donne, una di campagna, l’altra di città; una di classe bassa o medio-bassa, l’altra di classe alta o medio-alta. I ‘nuovi’ addetti al lavoro domestico e di cura, infatti, arrivano dall’estero, non di rado da città medie e grandi; spesso, in patria, appartengono a un ceto che potremmo definire medio; in Italia, non lavorano necessariamente per famiglie di ceto superiore al loro, se si compara la rispettiva posizione sociale nei contesti di origine: talvolta, anzi, lavorano in famiglie di ceto inferiore. Last but non least, non sono solo donne, ma anche uomini, sebbene le donne continuino a essere la maggioranza[4].

Da qualche mese, tuttavia, agli occhi di molti la crisi sembra sparigliare di nuovo le carte. Le famiglie hanno problemi economici, si dice, e il budget per assumere persone di servizio si riduce. Se poi uno dei membri è disoccupato, può svolgere i compiti altrimenti delegati a colf e ‘badanti’. Già da mesi, inoltre, i giornali hanno cominciato a segnalare che anche donne italiane frequentano i corsi per assistenti familiari: la crisi, si denuncia, le spinge verso un lavoro che pareva ormai destinato a essere svolto solo da immigrati.

Se già nell’ambito della consultazione sul futuro del lavoro di cura, promossa dal Cespi nel 2008, alcuni partecipanti s’interrogavano sull’impatto della crisi che si stava profilando,[5] in seguito riflessioni e commenti sono andati moltiplicandosi. I mass media hanno annunciato l’ingresso delle donne italiane nel ‘badantato’ come una clamorosa novità. Sulla «Stampa», il 13 marzo 2009 un articolo titola Crisi, ora le italiane fanno le badanti, riportando l’opinione di Federica Rossi Gasparrini, Presidente dell’associazione Federcasalinghe-Donneuropee, secondo la quale «una volta questo settore era appannaggio degli emigranti, oggi le donne italiane, per affrontare la crisi e la disoccupazione si rimboccano le maniche e si avvicinano all’area del servizio alla persona ». Tali affermazioni si basano sul fatto che «i corsi gratuiti per badanti organizzati dalla Federcasalinghe-Donneuropee sono letteralmente presi d’assalto dalle donne italiane». [6]. Nei mesi successivi i mass media tornano sull’argomento, in parte stimolati dalle tesi presentate dalle Acli-Colf alla loro XVII assemblea (maggio 2009), che toccano il tema della crisi[7]. Ultimo della serie è probabilmente un articolo apparso mentre sto chiudendo questo contributo, secondo il quale «ora anche tantissime signore bolognesi colpite dalla crisi fanno richiesta per diventare badanti». L’articolo riporta un colloquio con Francesco Murru, presidente provinciale delle Acli di Bologna, e riferisce che da gennaio ad aprile 2010 «sono state circa 2500 le richieste arrivate ai loro uffici, circa 200 in più rispetto al 2009. Ma se l’anno scorso erano circa 420 le bolognesi a farsi avanti, ora sono 875». Si tratterebbe in prevalenza di donne dai 45 ai 55 anni che hanno perso il lavoro a causa della crisi[8].

Non è facile valutare quanto questi giudizi colgano nel segno. Va però sottolineato che gli italiani non sono mai completamente spariti dal settore domestico. Non solo: da tempo si registra una crescita del loro numero, seppur probabilmente ‘occultata’ dall’aumento tumultuoso degli immigrati. Questo almeno quanto si ricava dai dati INPS, che come noto riguardano solo il lavoro denunciato. Come mostra la tavola che segue, i nuovi rapporti di lavoro domestico e di cura instaurati da italiani erano 34.000 nel 2005, 59.000 nel 2009, con un’accelerazione della crescita tra 2007 e 2008. La crisi avrebbe insomma accelerato un fenomeno già in atto:

L’ascesa del ‘nuovo’ lavoro domestico ci ha abituati anche alla presenza di uomini in questo settore considerato tipicamente femminile, se si escludono alcuni ruoli nelle famiglie upper class (camerieri, cuochi, autisti). Certo è una presenza sempre minoritaria, ma non trascurabile. Non a caso, il ‘badante’ al maschile è entrato anche nella letteratura[9]. Agli occhi di molti, proprio l’origine straniera pare giustificare il fatto che alcuni immigrati facciano un lavoro ritenuto ‘da donna’, come se per loro non valesse la divisione di genere dei ruoli comune tra gli italiani[10].

Che alcuni uomini italiani disoccupati si siano iscritti, a Carpi, a corsi di formazione per assistenti familiari è invece parsa cosa tanto strana da meritare un servizio televisivo. E l’intervistatore non ha mancato di chiedere a uno degli iscritti se non fosse imbarazzato all’idea di fare un lavoro ‘da donna’[11]. Il caso di Carpi non pare unico: il «Corriere del Veneto» riportava, nel dicembre 2009, i dati relativi ai corsi di formazione per assistenti familiari organizzati dalla provincia di Treviso. Dei 171 iscritti, 91 erano stranieri (80 donne e 11 uomini); ben 80 italiani (46,8%) e, tra di essi, c’erano 12 uomini, pari al 7% del totale: una percentuale decisamente superiore a quella degli uomini italiani impiegati nel settore domestico e di cura iscritti all’Inps, che nel 2007 (ultimo dato disponibile) era di poco superiore all’1% (6.036 su 597.281)[12] Anche in questo caso, tuttavia, è bene notare che i domestici maschi italiani (almeno quelli iscritti all’Inps) già da vari anni mostrano una tendenza all’aumento, pur restando pochi.

È presto per valutare che cosa ci riserva il futuro. Lo spazio della casa sarà ‘aperto’ – in questo caso agli effetti della crisi – al punto che il ‘nuovo’ lavoro domestico e di cura verrà radicalmente riconfigurato? La crisi diminuirà la domanda e amplierà l’offerta di lavoro nel settore contribuendo (paradossalmente?) a ridurne la segregazione di genere e la caratterizzazione come impiego ‘da immigrati’? Non posso che chiudere aprendo a nuovi interrogativi.


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