La recente proposta avanzata dai
sindacati Cgil, Cisl e Uil di modificare
i versamenti contributivi nel settore domestico è sicuramente interessante.
Il documento che i sindacati
hanno inviato al governo oltre alle richieste sulla previdenza, è contenuta
anche la domanda di fermare l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni per
tutti i lavoratori.
Oggi i contributi per la pensione dei collaboratori domestici sono
articolati su due livelli: standard per i contratti fino a 24 ore alla
settimana; di fatto dalla 25esima ora sono ridotti. Tale meccanismo nasce con la logica di alleggerire le spese sostenute
dalle famiglie che hanno bisogno di molte ore d’aiuto, ad esempio quelle
che hanno una badante a tempo pieno. Oltre ad essere ridotte, sono legate alle
cosiddette retribuzioni convenzionali e non parametrate sullo stipendio
percepito. Ciò incide sui lavoratori, i quali, versando meno contributi, si
vedono ridotta la propria pensione. Pertanto i sindacati chiedono «versamenti
contributivi pieni pure oltre le prime 24 ore settimanali». E anche «rapportati alle retribuzioni corrisposte effettivamente, se superiori a
quelle convenzionali».
Come Acli Colf da anni sosteniamo
tali ipotesi interpretando questa sottrazione di diritti al pari di una reale
discriminazione per le lavoratrici e i lavoratori – quasi un milione – impiegati
nel settore domestico. Riconosciamo allo stesso tempo la fragilità di molte
famiglie datrici di lavoro, spesso impossibilitate a reggere da sole tutto il costo
dell'assistenza familiare.
E’ necessario dunque chiarire un
aspetto: a volte le famiglie datrici di lavoro vengono equiparate alle “imprese”. Questo è però un errore
concettuale. Nell’ambito del settore domestico e soprattutto quello di cura e
assistenza alla persona, le famiglie non
sono e non possono essere considerate delle “imprese”, poiché mentre queste
ultime sono mosse dal profitto (per legittime finalità imprenditoriali), i nuclei familiari sono spinti dalla
necessità (dal bisogno di cure e assistenza per sé o per i propri cari). In
assenza di una rete di servizi dello Stato, le famiglie sono costrette ad auto
organizzarsi attraverso il “fai da te” che non può tradursi in un
livellamento al ribasso dei diritti dei lavoratori, scaricando su chi è più
debole ulteriori difficoltà e ingiustizie.
L’Italia ha ratificato la
convenzione ILO 189 del 2011 equiparando quelli domestici agli altri lavoratori.
Quindi non solo dovrebbe essere
garantito un uguale sistema contributivo, ma anche la tutela della maternità e
della malattia così come avviene per gli altri lavoratori dipendenti.
La proposta per coniugare diritti
senza sovraccaricare le famiglie potrebbe essere, come sottolineato in diverse
occasioni, una deduzione totale del costo del lavoro per chi assume personale
domestico, in particolare per l’assistenza alla persona.
Lo Stato ci perde?
Assolutamente no, perché
attraverso queste riforme aumenterebbero
sia la legalità del lavoro, (diminuendo quello nero e grigio), sia le
entrate derivanti dalla tassazione dei lavoratori regolarmente assunti.
Il nostro Paese, inoltre, ci
guadagnerebbe soprattutto se si attivassero dei meccanismi per mettere in rete
famiglie, persone assistite e assistenti con i servizi socio sanitari a livello
locale, contrastando così la solitudine che è il male peggiore di questo
rapporto/relazione di lavoro.
Equità, legalità e relazione: tre parole, tre obiettivi che
dobbiamo sempre avere in mente quando parliamo di lavoro e, nel nostro
specifico, di lavoro domestico e di cura.
Raffaella Maioni