4 ottobre 2017

La proposta dei sindacati: il punto di vista delle Acli Colf



La recente proposta avanzata dai sindacati Cgil, Cisl e Uil di modificare i versamenti contributivi nel settore domestico è sicuramente interessante.
Il documento che i sindacati hanno inviato al governo oltre alle richieste sulla previdenza, è contenuta anche la domanda di fermare l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni per tutti i lavoratori.
Oggi i contributi per la pensione dei collaboratori domestici sono articolati su due livelli: standard per i contratti fino a 24 ore alla settimana; di fatto dalla 25esima ora sono ridotti. Tale meccanismo nasce con la logica di alleggerire le spese sostenute dalle famiglie che hanno bisogno di molte ore d’aiuto, ad esempio quelle che hanno una badante a tempo pieno. Oltre ad essere ridotte, sono legate alle cosiddette retribuzioni convenzionali e non parametrate sullo stipendio percepito. Ciò incide sui lavoratori, i quali, versando meno contributi, si vedono ridotta la propria pensione. Pertanto i sindacati chiedono «versamenti contributivi pieni pure oltre le prime 24 ore settimanali». E anche «rapportati alle retribuzioni corrisposte effettivamente, se superiori a quelle convenzionali».

Come Acli Colf da anni sosteniamo tali ipotesi interpretando questa sottrazione di diritti al pari di una reale discriminazione per le lavoratrici e i lavoratori – quasi un milione – impiegati nel settore domestico. Riconosciamo allo stesso tempo la fragilità di molte famiglie datrici di lavoro, spesso impossibilitate a reggere da sole tutto il costo dell'assistenza familiare.
E’ necessario dunque chiarire un aspetto: a volte le famiglie datrici di lavoro vengono equiparate alle “imprese”. Questo è però un errore concettuale. Nell’ambito del settore domestico e soprattutto quello di cura e assistenza alla persona, le famiglie non sono e non possono essere considerate delle “imprese”, poiché mentre queste ultime sono mosse dal profitto (per legittime finalità imprenditoriali), i nuclei familiari sono spinti dalla necessità (dal bisogno di cure e assistenza per sé o per i propri cari). In assenza di una rete di servizi dello Stato, le famiglie sono costrette ad auto organizzarsi attraverso il “fai da te” che non può tradursi in un livellamento al ribasso dei diritti dei lavoratori, scaricando su chi è più debole ulteriori difficoltà e ingiustizie.


L’Italia ha ratificato la convenzione ILO 189 del 2011 equiparando quelli domestici agli altri lavoratori. Quindi non solo dovrebbe essere garantito un uguale sistema contributivo, ma anche la tutela della maternità e della malattia così come avviene per gli altri lavoratori dipendenti.
La proposta per coniugare diritti senza sovraccaricare le famiglie potrebbe essere, come sottolineato in diverse occasioni, una deduzione totale del costo del lavoro per chi assume personale domestico, in particolare per l’assistenza alla persona.

Lo Stato ci perde?
Assolutamente no, perché attraverso queste riforme aumenterebbero sia la legalità del lavoro, (diminuendo quello nero e grigio), sia le entrate derivanti dalla tassazione dei lavoratori regolarmente assunti.
Il nostro Paese, inoltre, ci guadagnerebbe soprattutto se si attivassero dei meccanismi per mettere in rete famiglie, persone assistite e assistenti con i servizi socio sanitari a livello locale, contrastando così la solitudine che è il male peggiore di questo rapporto/relazione di lavoro.
Equità, legalità e relazione: tre parole, tre obiettivi che dobbiamo sempre avere in mente quando parliamo di lavoro e, nel nostro specifico, di lavoro domestico e di cura.

Raffaella Maioni