di Alessandro Leogrande
(Tratto da Il Fatto Quotidiano - 16/12/2011)
Fermo Immagine dal Documentario Sidelki, di Katia Bernardi |
Una nuova forma di depressione si aggira per l’Europa: si chiama “Sindrome italiana”. Non riguarda la schizofrenia della finanza o il pericolo di una nuova recessione. La sindrome che prende il nome dal Belpaese colpisce i lavoratori, o meglio le lavoratrici, più invisibili: le badanti provenienti dall’Est. I primi ad accorgersene sono stati due psichiatri di Ivano-Frankivs’k, città di duecentomila abitanti nell’Ucraina occidentale, profondamente segnata dalle tragedie del Novecento. Nel 2005, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych intuiscono che due donne in cura nel loro reparto presentano un quadro clinico diverso dagli altri. Sintomi che hanno imparato a riconoscere in anni di attività (cattivo umore, tristezza persistente, perdita di peso, inappetenza, insonnia, stanchezza, e fantasie suicide) si innestano su una frattura del tutto nuova, che mescola l’affievolirsi del senso di maternità con una profonda solitudine e una radicale scissione identitaria. Quelle giovani madri non sanno più a quale famiglia, a quale parte dell’Europa appartengano, come se un’antica armonia si fosse all’improvviso spezzata.
Kiselyov e Faifrych capiscono che il “male oscuro” ha chiare origini sociali. Le due pazienti sono state badanti all’estero, hanno lavorato a lungo come donne di compagnia, infermiere, assistenti tuttofare nelle case italiane. Lo hanno fatto per anni, 24 ore al giorno, salvo che per una breve pausa nella domenica pomeriggio. Sono state lontane dalla loro casa, hanno lasciato soli i loro figli per accudire anziani altrettanto soli dall’altra parte del continente. Hanno retto sulle proprie fragili spalle due delicate trasformazioni: da una parte, l’invecchiamento dell’Italia e lo sgretolamento delle sue famiglie; dall’altra – attraverso le loro rimesse, spesso unica fonte di reddito per le loro famiglie lasciate lì – la tumultuosa transizione dei paesi orientali. Sono rimaste a lungo sole, molto sole, senza che nessuno potesse percepire il loro stress crescente. E alla fine non ce l’hanno fatta più, sono crollate. I due psichiatri comprendono subito che le due pazienti non sono un caso isolato. Tante altre donne versano nelle stesse condizioni. E allora coniano il termine “Sindrome italiana”, dal nome del paese più “badantizzato” dell’Europa occidentale e forse del mondo. Le date in questa storia sono importanti.
Kiselyov e Faifrych diagnosticano i primi casi nel 2005, appena tre anni dopo la grande sanatoria del 2002 che permette di regolarizzare decine di migliaia di lavoratrici domestiche. Non ci vuole molto a capire che la “Sindrome italiana” non riguarda solo le donne ucraine. Colpisce anche moldave, rumene, russe, polacche… cioè buona parte delle lavoratrici che hanno finito per costituire l’ossatura centrale della “gestione” nostrana degli anziani non-autosufficienti. In Romania alcuni psichiatri iniziano a studiare l’altra faccia della medaglia, i figli lasciati nei paesi di partenza. Ed estendono la nuova locuzione “Sindrome italiana” anche a loro. Nel 2010 Mihaela Ghircoias, psichiatra presso l’ospedale pediatrico Santa Maria di Iaşi, in Romania, si accorge che su circa mille bambini curati nel suo reparto, la metà ha un genitore (in particolare la madre) emigrata all’estero (in particolare in Italia) per lavorare (in particolare come badante). Alcuni hanno tentato il suicidio. Ecco il caso tipo: un ragazzino di 11 anni vive solo con il padre che non lavora, mentre la madre assiste un’anziana in Italia. Va bene a scuola, ha ottimi voti, ma è sempre silenzioso, la tristezza per la lontananza della madre gli scava dentro. Non ne parla con nessuno, apparentemente tutto procede per il meglio, ma in realtà il male oscuro lo logora. E – a soli 11 anni – tenta il suicidio.
Come si cura questo male europeo, che sembra quasi seguire i sommovimenti economici (e geopolitici) del nuovo mercato globale del lavoro? Spesso basta ricomporre il nucleo famigliare, e di colpo tutto il malessere svanisce. Ma altre volte le situazioni sono più complicate. Quando ritornano nel paese di origine, molte donne si ritrovano in un nuovo limbo. Si ritrovano in un paese che non considerano più come proprio; e, nel frattempo, i figli hanno definitivamente voltato loro le spalle.
Maurizio Vescovi, medico a Parma, è uno dei primi ad aver riscontrato in Italia questa nuova forma di depressione. Almeno il 25 % delle donne dell’Est incontrate nel suo studio ne soffre, tanto che ha segnalato il caso all’interno dell’ Italian Study on Depression, una ricerca condotta dall’Istituto Mario Negri Sud di prossima pubblicazione. « Due costanti », sostiene Vescovi, « sembrano ritornare. Spesso queste donne lasciano un lavoro qualificato come insegnante, medico, ingegnere, per venire a svolgere mansioni dequalificate, per le quali non sono state formate. Inoltre, col tempo, si percepiscono come donne-bancomat: il solo rapporto con la famiglia consiste nell’inviar loro dei soldi. Diventano l’unica fonte di reddito ». Svitlana Kovalska, presidente dell’Associazione Donne Ucraine Lavoratrici in Italia, ha le idee chiare a riguardo: « Questo stress, in forme più o meno gravi, l’abbiamo provato tutte ». Queste donne hanno solo bisogno di rompere una gabbia di solitudine. Non è normale lavorare 24 ore al giorno, assorbendo su di sé i problemi di una nuova famiglia, dimenticando la propria.
La “Sindrome italiana” si cura con il calore, con il lavoro di comunità, elaborando nuove forme di auto-aiuto: « Ricordo una donna che stava molto male. Le chiesi di raccontarmi della sua vita. Iniziò a farlo, ma dopo pochi minuti scoppiò in un lunghissimo pianto. Quando si calmò, mi disse che erano dieci anni che non piangeva, in Italia non l’aveva mai fatto… Fece un lungo respiro, solo allora si sentì meglio ». L’ansia a volte scompare così. Ne è convinta anche Tatiana Nogailic, presidente di AssoMoldave a Roma. L’emigrazione di massa non si fermerà, dice, perché le badanti servono come il pane. È irrealistico pensare che il ritorno in patria sia l’unica soluzione, serve una vita migliore qui. « Le badanti devono essere considerate donne, non macchine. Anche qui, anche in Italia. Sono loro i soggetti da privilegiare quando si progettano interventi per l’integrazione. Sono loro le figure chiave per la mediazione tra mondi e culture ».
Saturno, 16 dicembre 2011