25 novembre 2010

Conversazioni sul velo

 

di Raffaella Maioni

Nel contesto Europeo il tema del velo integrale, del burqa, fa molto discutere. Ed è la Francia ad approvare in via definitiva con voto quasi unanime del Senato il divieto di portare il velo integrale islamico sul suolo francese.

Il provvedimento vieta d'indossare il burqa e il niqab, due diversi tipi di velo integrale, in tutti i luoghi pubblici, ed impone ai trasgressori una multa di 150 euro alla quale potrà essere aggiunto, o sostituito, un corso di educazione civica. La sanzione sale a 30mila euro per gli uomini che obbligano le donne a indossare il velo integrale. Sul merito dovrà esprimersi ancora la Corte Costituzionale francese anche in considerazione di quanto sostenuto dalla Corte Europea per i diritti umani, che sancisce il "principio dell'autonomia personale", in base alla quale le persone hanno diritto a vivere secondo le proprie convinzioni.

La discussione è dunque delicata e anche in Italia si incontrano/scontrano varie posizioni, più o meno condivisibili.




Per alcuni il velo integrale - se liberamente scelto - è espressione della propria autonomia personale, nonché il simbolo di una protesta silenziosa per affermare che le donne meritano riconoscimento socio-politico, al di là della visibilità esibita attraverso l’esposizione del proprio corpo; per altri una forma di sottomissione che offende la dignità della donna che lo indossa; altri ancora ne fanno – in modo più o meno strumentale – semplicemente un problema di ordine pubblico e di sicurezza.
La questione è chiaramente controversa se non si trovano delle chiavi di lettura condivise. In tal senso interessante è la riflessione di Tariq Ramadan[1] che pone l’accento sulla capacità di rafforzare l’ascolto e la reciproca conoscenza, affinché tradizioni e culture, anche diverse, si possano raccontare, comprendere e possano procedere in modo condiviso. E’ difficile costruire una storia condivisa se Islam e Occidente continuano a rapportarsi l’uno nei confronti dell’altro sulla base di rappresentazioni che spesso non sono corrispondenti alla realtà: da un lato, la rappresentazione di un Islam fortemente integralista che “invade” e “contamina”; dall’altro, quella di un occidente ostile che rifiuta la religione musulmana e considera i musulmani stranieri.

Nel tentativo di approfondire la riflessione sul tema del velo, del foulard[2] - parola suggerita da Tariq Ramadam  e che noi proviamo ad adottare in quanto ci sembra non abbia implicazioni di natura politica –  raccogliamo la testimonianza di una giovane donna mussulmana, Najwa B., in Italia dall’età di cinque anni, laureanda in giurisprudenza a Roma ed impegnata socialmente nel contesto italiano.

Dall’intervista con Naiwa.
E’ importante innanzitutto precisare che l'uso del velo non è una pratica esclusivamente e specificatamente musulmana, ma semmai araba e anteriore all'Islam, essendo diffuso anche in varie altre culture e religioni, come quella cristiana orientale e bizantina. Il suo scopo principale in origine è stato quello di segnalare le differenze sociali, ovvero indica ciò che deve essere rispettato, ciò che è sacro. E quindi, se portato da una donna, era un simbolo fondamentale che quella donna doveva essere rispettata.
Oggi l’obbligo di velarsi è un tema controverso anche per i mussulmani stessi. Tale obbligo risulta dedotto da un insieme di versetti del Corano e di Hadīth del profeta Muhammad. Il disaccordo interno al mondo mussulmano in generale è se il velo debba coprire o meno il volto delle donne. In merito ad una copertura totale del volto della donna non c’è traccia nel Corano mentre l'obbligo di nascondere le altre parti del corpo (escluso il viso, le mani e i piedi per alcuni) è del pari riportato nei libri consacrati.
I musulmani che sostengono l'obbligatorietà di portare il velo, e qui non parlando del velo integrale, si richiamano a due passaggi coranici. Il primo è quello di Cor., XXXIII: 59 e Cor., XXIV: 31[3]. La parola usata nel Corano per indicare l’atto di ‘nascondere’  è hijāb (usata per sette volte) ed indica appunto il ‘nascondere’, ma in nessun caso fa riferimento a un capo d'abbigliamento femminile:  ha il senso di «cortina, tenda» per indicare l'isolamento delle mogli di Muhammad: «E quando domandate un oggetto alle sue spose, domandatelo restando dietro una tenda hijāb: questo servirà meglio alla purità dei vostri e dei loro cuori[4]».  Questa separazione, inizialmente riservata alle mogli del profeta Muhammad, in seguito è stata estesa alle donne musulmane libere. Comunque sia l’uso del velo, del nascondere i capelli, nonché comportamenti virtuosi da tenere come donne, sono ispirati alla vergine Maria che diventa esempio massimo di virtù nella religione mussulmana.
Il tema del velo comunque è un tema che viene affrontato in modo molto controverso anche nei Paesi islamici e quello che si dice in Europa spesso in merito al burqa, al velo, per noi mussulmani, non è nulla di nuovo.
Ad esempio, in Egitto, l'aumento delle donne che indossavano il niqab (che copre il volto e lascia scoperti solo gli occhi) ha preoccupato il governo egiziano tanto che il ministro dell'istruzione superiore egiziano ha disposto, ad ottobre 2010, il divieto per le ragazze che indossano il niqab, di accedere ai collegi universitari. L'imam dell'università Al-Azhar, Mohammed Said Tantawi, ha annunciato la decisione di bandire il velo integrale, ovvero il burqa o il niqab, dall'ateneo islamico, definendolo "un'usanza tribale che non ha niente a che vedere con l'Islam".
E’ vero che alcuni sostengono che il burqa o il niqab, forme di velo integrale, possano essere un modo per la donna di riscattarsi, ma come giovane donna mussulmana non penso sia realmente così. Penso sia in realtà un’azione distruttiva e antiproduttiva per le donne stesse in quanto la strumentalizzazione della copertura del corpo femminile in modo banale, può addirittura insultare in via indiretta, la scelta ponderata fatta con coscienza da molte donne.
Si finirà poi per non distinguere e non scindere le due cose. Come sarebbe assolutamente deplorevole vietare qualsiasi esibizione di segni religiosi nei luoghi pubblici.  Imporre e far diventare il burqa una forma di ribellione o negare assolutamente qualsiasi simbolo di espressione religiosa, sono comunque lesione dei diritti dell’uomo, legati alla sua sfera di libertà personale.
Senza andare contro le regole, vorremmo avere la possibilità di scelta e di esprimere con il corpo, l’abbigliamento più consono per il nostro essere.
Attraverso l’abbigliamento posso far emergere semplicemente la mia personalità e il mio stile.
Non è comunque semplice! Quando però per strada, in autobus, si vede una donna, una ragazza semplicemente con il foulard in testa, si pensa subito che sia naturalmente mussulmana e probabilmente immigrata. Non si pensa possa essere una cittadina italiana.
Quindi come mussulmani dobbiamo spiegarci.
In questo momento molto sensibile della storia che stiamo vivendo, dobbiamo avere la capacità di portare la nostra testimonianza nella quotidianità di cosa significa essere mussulmani nell’occidente, come cittadini italiani, francesi o marocchini.
Molto spesso quando ci conoscono e sanno che siamo mussulmani, ci identificano con la nostra fede; per tanto siamo maggiormente responsabili di far conoscere una religione che spesso è distorta attraverso i media.
Per i ragazzi delle seconde generazioni è ancora più difficile spiegare  perché, ad esempio, una ragazza come me, si sente al cento per cento italiana, ed è questo il dato di fatto; siamo spesso giovani nati e cresciuti in Italia e non abbiamo relazioni o poche relazioni con il nostro paese di origine. Anche per noi è complesso perché ci sentiamo a volte spaesati.
Personalmente amo l’Italia e nonostante questo periodo difficile, mi sento di dover contribuire al suo benessere. E’  per questo che mi infastidisce essere giudicata solo per la mia fede religiosa. Possiamo contribuire come giovani mussulmani, ma semplicemente come giovani italiani ad un progresso. Questo per noi mussulmani è inoltre un dovere inderogabile, un imperativo categorico nei confronti del nostro paese, che per me è oggi l’Italia. Dobbiamo cercare nella vita di tutti i giorni di dimostrare il nostro valore, cercando di fare al meglio il nostro lavoro, onorando le nostre virtù e i talenti che ci sono stati donati.
Pensando alla mia espressione religiosa, avrei oggi piacere di indossare il velo, non lo nego. Intimamente mi sento pronta, perché indossare il velo è un gesto all’interno di un percorso che, se volontariamente scelto, non fa altro che avvicinare chi lo compie a Dio. Indossarlo non è solo un segno esteriore, ma anche una testimonianza di maturata serenità interiore. Un unico pensiero che mi rattrista sono le conseguenze che potrebbe comportare questa mia scelta. Già il fatto di pensare se indossarlo o meno rispetto ad un possibile giudizio degli  altri, lede la mia libertà di scelta e la mia sensibilità.
Mi pongo queste domande e nonostante io e tante altre persone cerchiamo di essere dei buoni cittadini e un buon esempio di quella che chiamiamo integrazione, mi rendo conto della necessità di tanti passi da fare insieme per capirci e conoscerci di più.
Questa è la realtà che vivo rispetto al semplice uso del velo, foulard o sciarpa che molte ragazze mussulmane oggi indossano, magari tutte colorate. A volte penso a come siano semplicemente belle quelle tante testine colorate”. 






[1] Tariq Ramadam insegna filosofia (liceo di Ginevra) e Islamologia all’Università di Friburgo.
[2] Vedi nota 2. pp. 85 - 86
[3] Cor.,XXXIII:59 « O Profeta! Dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli (jalābīb); questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese. Ma Dio è indulgente clemente! »
  Cor., XXIV:31 « E di' alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi, sì da mostrare gli ornamenti che celano. Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti, affinché possiate prosperare»
[4] Cor. XXXIII: 53