Un tempo c’erano le
cameriere nere e le signore bianche, come racconta il film The help, ambientato
nell’America razzista degli anni 60. Oggi ci sono donne venute da Paesi
lontani, che hanno lasciato lì i figli per venire a servizio qui. Un lavoro
usurante? Seguiteci in questo viaggio nelle nostre case. Perché puoi
sopravvivere a un marito imperfetto, ma non a una colf incompetente
di Alessandra Di
Pietro - foto Luca Zanetti
Serve una parola per
dire esattamente chi è Nina,
ma non la trovo. Colf, collaboratrice familiare o domestica esprimono bene il
nostro contratto di lavoro ma non evocano l’affetto che ne fa una amica per me
e una zia per i miei figli. Cameriera non appartiene alla mia educazione (mia
madre non ne aveva) e dunque mi imbarazza usarlo, governante fa ridere
entrambe, donna di servizio non è esauriente. Forse tata rende bene per i miei
bambini ma non per me. Non trovo un nome calzante, eppure questa è
l’indispensabile relazione che mi permette di fare il mio mestiere, tenere
l’ordine in casa, indossare abiti stirati, avere il frigorifero pieno di
verdure pulite, contare su una mano di aiuto nella gestione della vita
familiare, sempre. Sì certo, c’è un papà ed è molto presente (anche se nel mio
caso vive in un’altra casa) ma il fatto è che la donna con cui dividi il lavoro
di cura o che in esso ti sostituisce è il tuo alter ego. So che siamo in molte
a pensarla così: puoi sopravvivere a un marito imperfetto, ma non a una colf
che non sa fare il suo lavoro, perché altrimenti la tua vita diventa un inferno,
specie se ne dipendi tutti i giorni. E soprattutto se ne sono coinvolte le
relazioni affettive.
Chiamale, se vuoi,
emozioni
Per occuparsi dei
bambini e degli anziani bisogna mettere in gioco l’amore. Non c’è un altro modo
possibile. Era così persino nel Mississippi della segregazione razziale negli
anni 60, dove è ambientato The
help, il bel libro di Kathryn
Stockett (Mondadori) da cui è
tratto l’omonimo film (molto emotivo, portatevi tanti kleneex) di Tate Taylor con Emma Stone. In queste
case dove le cameriere usavano solo bagni separati (in alternativa trattenevano
per otto ore), Minnie e Aibeleen, le
protagoniste, concordano: «Alla fine ami ognuno di quei bambini bianchi che
cresci anche se sai che da grandi diventeranno come i loro genitori» (leggi
razzisti). Però: «La relazione emotiva è spesso una trappola per i lavoratori,
un modo per chiedergli sempre di più e gratuitamente, dunque separare lavoro e
affetto è consigliabile» mi avvisa Sara
Picchi, ricercatrice junior della Fondazioni
Brodolini che si occupa in particolare di politiche di long term care (cure
a lungo termine).
«Succede soprattutto nella cura delle persone anziane che è in costante aumento e, per definizione, crea tensioni perché la badante gestisce anche le inquietudini e la solitudine della persona malata e assistita». E spesso l’accompagna fino alla morte. Secondo l’European foundation for the improvement of living and working conditions, il lavoro di cura con gli anziani è usurante e spesso fonte di esaurimento che causa un ritiro anticipato dal mercato del lavoro. Chi bada e soccorre i badanti? Nessuno. Anche perché spesso sono clandestini, dunque per legge non esistono
«Succede soprattutto nella cura delle persone anziane che è in costante aumento e, per definizione, crea tensioni perché la badante gestisce anche le inquietudini e la solitudine della persona malata e assistita». E spesso l’accompagna fino alla morte. Secondo l’European foundation for the improvement of living and working conditions, il lavoro di cura con gli anziani è usurante e spesso fonte di esaurimento che causa un ritiro anticipato dal mercato del lavoro. Chi bada e soccorre i badanti? Nessuno. Anche perché spesso sono clandestini, dunque per legge non esistono
Così lontani, così
vicini
The help racconta di donne a servizio per otto ore al giorno con
paghe da fame e senza assistenza sanitaria, cameriere a cui si ordina un
sandwich senza dire per favore né grazie, licenziate su due piedi per il
sospetto di un furto, guardate con occhi cattivi perché amatissime da figli
lasciati nelle loro braccia.
Oggi non c’è una
segregazione razziale per mano della legge ma la situazione è davvero così
tanto diversa? Quanti lavoratori domestici non hanno un contratto, in nero
dormono su una branda, sono sfruttati oltre ogni limite orario? Con un plus. In The help la cameriera alle quattro prende un
autobus e torna a casa sua, dai propri figli. Quante delle nostre colf non
possono farlo perché i loro li hanno lasciati dall’altra parte dell’oceano? Le
due sociologhe americane Barbara
Ehrenreich e Arlie Russell Hochschild in Donne globali. Tate, colf e badanti (Feltrinelli) lo hanno detto senza
mezze misure: dietro ogni donna in carriera ce n’è un’altra dalla quale dipende
l’organizzazione della casa e la serenità dei bambini, ripara al fallimento
nella divisione dei lavori di cura con gli uomini, permette a noi di fare
carriera. Non per caso Gloria,
40 anni, funzionaria di banca che si occupa di filiali all’estero e quindi è
spesso fuori Italia, ama dire che quando ha deciso di mettere al mondo i figli
«prima ancora del padre ho scelto con accortezza una tata: giovane, europea e
senza famiglia. Perché sapevo che fare allevare i miei pupi a una donna che
aveva dovuto lasciare i suoi mi avrebbe causato eterno rimorso».
Marianna, insegnante di
matematica, moglie di un medico, tre figli tra i 20 e i nove anni, invece ha
ingaggiato dieci anni fa Rose,
35 anni, filippina, madre di due bambini, stringendo un accordo: «Rose torna a casa ogni anno per un paio di
mesi e arrivano in sostituzione il marito o la cognata, così loro hanno sempre
un reddito e io non resto senza aiuto». In questo turnover, però, Rose che sa cucinare, dipingere e creare
delle bellissime bambole di pezza, non ha mai il tempo di imparare l’italiano
come vorrebbe né di fare un corso di pittura. E, chiosa Marianna «quando torna dalle
Filippine è triste per almeno un paio di mesi».
La geografia della cura è globale
È sacrosanto
prendersi cura di quel che accade nelle famiglie di origine dei nostri aiuti
familiari. Però bisogna pur considerare che i grandi flussi migratori hanno
cambiato la struttura sociale e ogni Paese sta reagendo in modo diverso. L’Ucraina tenta di scoraggiare (anche se con
scarso successo) l’emigrazione, ad esempio rifiutandosi di sottoscrivere
accordi per il reclutamento di assistenti familiari all’estero. In Ecuador, invece, la
Costituzione approvata nel 2008 stabilisce l’obbligo dello Stato di proteggere
la famiglia transnazionale ed è attiva la Segreteria nazionale del migrante,
che favorisce la comunicazione tra la famiglia divisa. La Romania ha approvato alcune leggi per
promuovere il monitoraggio e la presa in carico da parte dei servizi sociali
locali dei minori lasciati in patria e nascono nuovi Centri per gli anziani con
rette fino a mille euro mensili rivolte a famiglie di migranti. Ne scrive Flavia Piperno sul web magazine Ingenere che
conclude: «I Paesi occidentali dovrebbero sostenere i Paesi di origine, da cui
traggono manodopera da destinare alla cura, a migliorare l’impatto delle
migrazioni sul welfare locale». Chiosa Sara
Picchi: «L’Istituto di ricerca sociale (2009) stima che le famiglie
italiane per pagare gli addetti al lavoro di cura spendono più di nove miliardi
di euro l’anno (pari al 7 per cento della spesa sanitaria delle Regioni).
Questo consente un risparmio pubblico per mancate prestazioni assistenziali
quantificato dal ministero del Lavoro in sei miliardi di euro nel 2007». Guardo Nina e penso che non è solo una colonna
della mia vita ma anche un pilastro di questo Paese dove lavora da 16 anni, ma
né lei né sua figlia, nata qui otto anni fa, sono ancora cittadine. Le chiedo
se lei ha rinunciato a un sogno per fare questo mestiere (e me ne vergogno
perché non gliel’ho mai chiesto prima): «Sì, volevo studiare Economia. Però,
quando il bambino di cui mi occupavo è diventato grande e potevo riprendere gli
studi, è nata mia figlia. A quel punto o trovavo un lavoro flessibile oppure
dovevo prendere anch’io una baby sitter!». È vero, siamo tutte sulla stessa
barca e legate tutte da un unico filo. È così che prima o poi troveremo nuovi e
più larghi orizzonti.
Il peso della casa
Secondo l’Istat il
monte ore di lavoro domestico femminile è triplo rispetto agli uomini e il
divario non si riduce di molto se la donna è occupata. Il 63 per cento delle
madri lavoratrici non riceve alcun aiuto in casa. Tra chi lo ha, nel 52 per
cento arriva da una colf, nel 25 per cento dai nonni e solo nel 17 per cento
dal partner. Tra le colf, solo una su quattro è italiana secondo le stime Acli
Colf. Secondo Inps-Caritas (2011) i lavoratori domestici iscritti all’Inps sono
480mila ma, aggiungendo gli irregolari, si arriverebbe quasi a 800mila. In
Europa almeno il 19 per cento del lavoro domestico è in nero (Statewatch.org,
Report domestic workers 2011). E, se in Italia e Francia la legge indica gli
standard di trattamento in caso di vita in comune, tali regole non sono nemmeno
previste in Grecia, Ungheria, Polonia e Svezia (Oecd, Rapporto Help wanted?)