19 Ottobre 2010 IL MERCATO E LE REGOLE
Inviato Avvenire a Torino Paolo Lambruschi
Lavoratori stranieri reclutati nelle aree più derelitte del globo e portati con l’inganno nelle nostre campagne al Sud o in cantieri subappaltati al Nord, a sgobbare in nero per due euro all’ora fino a quindici ore al giorno. Come schiavi. Uno sfruttamento sommerso che non risparmia neppure il lavoro domestico, in questo caso diffuso in maniera uniforme lungo tutta la Penisola.
Sono perlopiù uomini giovani, tra i 20 e i 40 anni, vittime di tratta, perché hanno pagato due o tremila euro in patria per uno pseudo contratto di lavoro che consentirebbe di sfamare moglie e figli a casa. Ma che, appena varcati i confini del Belpaese, si trasforma in schiavitù contemporanea bella e buona. Zero tutele, condizioni abitative e igieniche inumane, rischi per la salute, salari in nero e da fame, intimidazioni, ricatti, violenze. Le vittime sono anche costrette a versare tangenti, di norma il 60% della già bassa paga, ai "caporali", gli intermediari perno della truffa, di norma connazionali in combutta coi datori italiani e spesso con cartelli mafiosi.
A dieci mesi dai fatti di Rosarno, il Gruppo Abele, insieme a Caritas Italiana, Acli Colf, Associazione Papa Giovanni e altre realtà del privato sociale, in collaborazione con sindacati e associazioni datoriali, ha scelto di dedicare a Torino la Giornata europea contro la tratta agli esseri umani alle vittime del lavoro nero. Sono l’altra faccia dimenticata del traffico di braccia e corpi, accanto a quella ben più evidente a scopo sessuale. Vi sono anche poche denunce, nonostante la legislazione italiana ed europea la puniscano duramente. Ma una vittima magari irregolare, se denuncia perde l’unica fonte di sostentamento. E non ha molte garanzie di tutela perché l’applicazione della legge resta arbitraria. A luglio, poi, ha chiuso per mancanza di fondi il numero ant-tratta del ministero delle Pari opportunità, unico canale di denuncia accessibile. Insomma c’è un problema di coscienza culturale e politica.
Per il responsabile immigrazione della Caritas nazionale, Oliviero Forti, il fenomeno in Italia non è quantificabile, anche se a livello globale l’Organizzazione internazionale del lavoro stima 12 milioni di persone sfruttate in maniera grave o gravissima sul luogo di lavoro. Ma gli allarmi mandati dalle antenne diocesane puntate sui migranti dicono che nelle campagne del Mezzogiorno, dove i braccianti immigrati che lavorano in nero sarebbero tra gli 80 e i 100mila (ovvero circa la metà del totale degli stranieri presenti nel settore agricolo), ci sono ancora troppe situazioni come quella di Rosarno. «Certo - afferma Forti - abbiamo buone norme anti-tratta, ma sono applicate soprattutto alle forme di sfruttamento sessuale».
I dati raccolti nell’ultimo anno dallo sportello giuridico del Gruppo Abele tracciano un identikit geografico dei nuovi schiavi. Provengono dall’Est, da Moldavia, Romania e Ucraina (attivi nel lavoro domestico e in cantieri soprattutto al Centro e al Nord), dal Maghreb (muratori al Centro e al sud) come dall’Africa subsahariana, dall’America Latina e dalla Cina. «La vita delle persone non si vende e non si compra - ammonisce don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione torinese - una società non può dirsi civile se vengono tollerate simili situazioni lesive del diritto alla vita e della dignità umana. Carità e giustizia non sono divisibili».
Sono perlopiù uomini giovani, tra i 20 e i 40 anni, vittime di tratta, perché hanno pagato due o tremila euro in patria per uno pseudo contratto di lavoro che consentirebbe di sfamare moglie e figli a casa. Ma che, appena varcati i confini del Belpaese, si trasforma in schiavitù contemporanea bella e buona. Zero tutele, condizioni abitative e igieniche inumane, rischi per la salute, salari in nero e da fame, intimidazioni, ricatti, violenze. Le vittime sono anche costrette a versare tangenti, di norma il 60% della già bassa paga, ai "caporali", gli intermediari perno della truffa, di norma connazionali in combutta coi datori italiani e spesso con cartelli mafiosi.
A dieci mesi dai fatti di Rosarno, il Gruppo Abele, insieme a Caritas Italiana, Acli Colf, Associazione Papa Giovanni e altre realtà del privato sociale, in collaborazione con sindacati e associazioni datoriali, ha scelto di dedicare a Torino la Giornata europea contro la tratta agli esseri umani alle vittime del lavoro nero. Sono l’altra faccia dimenticata del traffico di braccia e corpi, accanto a quella ben più evidente a scopo sessuale. Vi sono anche poche denunce, nonostante la legislazione italiana ed europea la puniscano duramente. Ma una vittima magari irregolare, se denuncia perde l’unica fonte di sostentamento. E non ha molte garanzie di tutela perché l’applicazione della legge resta arbitraria. A luglio, poi, ha chiuso per mancanza di fondi il numero ant-tratta del ministero delle Pari opportunità, unico canale di denuncia accessibile. Insomma c’è un problema di coscienza culturale e politica.
Per il responsabile immigrazione della Caritas nazionale, Oliviero Forti, il fenomeno in Italia non è quantificabile, anche se a livello globale l’Organizzazione internazionale del lavoro stima 12 milioni di persone sfruttate in maniera grave o gravissima sul luogo di lavoro. Ma gli allarmi mandati dalle antenne diocesane puntate sui migranti dicono che nelle campagne del Mezzogiorno, dove i braccianti immigrati che lavorano in nero sarebbero tra gli 80 e i 100mila (ovvero circa la metà del totale degli stranieri presenti nel settore agricolo), ci sono ancora troppe situazioni come quella di Rosarno. «Certo - afferma Forti - abbiamo buone norme anti-tratta, ma sono applicate soprattutto alle forme di sfruttamento sessuale».
I dati raccolti nell’ultimo anno dallo sportello giuridico del Gruppo Abele tracciano un identikit geografico dei nuovi schiavi. Provengono dall’Est, da Moldavia, Romania e Ucraina (attivi nel lavoro domestico e in cantieri soprattutto al Centro e al Nord), dal Maghreb (muratori al Centro e al sud) come dall’Africa subsahariana, dall’America Latina e dalla Cina. «La vita delle persone non si vende e non si compra - ammonisce don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione torinese - una società non può dirsi civile se vengono tollerate simili situazioni lesive del diritto alla vita e della dignità umana. Carità e giustizia non sono divisibili».