1) Se penso al prossimo – visto dalla mia condizione “comune” di piccolo-borghese in città – lo vedo come figura distante: vittima dello tsunami o di una carestia, minore al lavoro in India, migrante, barbone. Sono esistenze lontane dalla mia e con le quali ho solo occasionali incontri per strada o in tv. Questo prossimo distante è però inquietante. E mi costringe a pormi molti interrogativi, più su me stesso che su di loro. Allora mi rivolgo al prossimo in senso fisico e anche sociale: vicini di casa, parenti, amici, gente del quartiere, colleghi. Non li vivo come prossimi se non per la frequenza degli incontri, ma il fatto stesso che con loro ci siano scambi dal mercantile al futile suscita sentimenti ambivalenti: più spesso li sento distanti e li terrei anche volentieri a distanza.
2) Per parlare di prossimo occorre interrogarsi sulle esperienze dirette che ne abbiamo e su come le elaboriamo. Così si evitano anche gli equivoci del buonismo e dei buoni sentimenti evocabili a poco prezzo. Se il prossimo non deve lasciare indifferenti deve esigere invece un costo emozionale e imporre una riflessione. E pensare il prossimo non lo si può fare con categorie astratte, ma con quelle elaborate nel mondo della vita e radicate nella propria biografia. Inoltre devo sempre anche pormi la domanda inversa: ma io di chi sono il prossimo, c’è qualcuno che mi considera tale?
3) Il prossimo non è vicino, ma piuttosto lontano. Devo elaborare questo senso di prossimità e lontananza insieme. Non si dà più un prossimo che sia anche vicino, sia come legame sociale sia come ecologia locale. Ovviamente abbiamo più problemi con i vicini che con i lontani. Da qui la tendenza a svalutare i primi e a esaltare i secondi. Chissà a chi stiamo rendendo ingiustizia così facendo?
4) Giungo alla conclusione provvisoria che non è più così evidente chi sia il (mio) prossimo. Ma l’evidenza ingannevole che era propria di una comunità ancora coesa, come al tempo dei Vangeli, si è dissipata e non me ne dispiace. Preferisco che il prossimo sia questione di scelta, non di destino, come sempre cieco e magari ottuso. La scelta sarà deliberata e quasi politica, in base quindi a criteri di giustizia, e anche aperta al caso, all’incontro imprevisto, se vale ancora la figura dell’ospite improvviso che si rivela a Emmaus. Allora più che scelta, sarà essere scelti e il criterio sarà la carità.
5) Ma resta di base che l’idea di prossimità è fragile, esposta a tutte le varianti dell’interpretazione, e all’arbitrio dei sentimenti. Perciò – dovendo ragionarci – cerco criteri per riconoscere uno che sia prossimo da qualche segno o da qualche sua posizione relativa nello spazio sociale. Prossimo mi sembra colui che mi è affine in un qualche stato di bisogno, se però io sono in grado di dargli qualcosa che lui non ha. Un’eguaglianza nella condizione esistenziale, non in quella sociale dove invece ci possono essere differenze enormi, e una differenza o asimmetria nella dimensione del dono.
6) Proprio la coesistenza di eguaglianza e differenza fa problema, perché permette e legittima l’interazione e quindi la creazione o genesi ( enactement sarebbe il termine giusto) dello status di prossimo, ma nello stesso tempo evoca ogni arbitrio e perversità ipocrita. D’altra parte, io – pure se do al prossimo, perché questo sembra l’atteggiamento più evocativo di prossimità – vorrei essere riconosciuto come prossimo dall’altro, ed essere messo in condizione di ricevere. In questa duplice posizione si dovrebbero, ma non so se realmente accada, intrecciare i motivi di giustizia distributiva o anche retributiva e risarcitoria con quello più auto-evidente della carità. 7) Si potrebbe essere prossimi senza asimmetria, su un piede di eguaglianza, senza attendere l’impatto egalitario dell’interazione? Probabilmente sì, anche se una “prossimità” reciproca e senza differenze andrebbe chiamata con altro nome, si tratti di intimità o di condivisione profonda dello stesso universo simbolico. (Qui mi vengono in mente Panikkar e Florenskij, ma non li segno certo come fonti bibliografiche, piuttosto come emblemi-guida dentro queste difficoltà della mente di pensarsi autonoma e insieme dipendente dalla giustizia e dalla carità degli altri, che nell’attivarle costruiscono quel tanto di prossimità che ci salva da un linguaggio solo privato).
8) Appunto, c’è da chiedersi se con la prossimità così precariamente istituita non siamo sulla via di una socievolezza o sociabilità sempre sentita come problematica da un io affermativo ma solitario. Con lo sviluppo ipertrofico di mondi virtuali e relativi contatti in uno spazio post-sociale io passo dalle reti sociali più vicine e fisicamente consuete a uno spazio multidimensionale iperbolico, in cui non so mai se veramente sono solo o con altri. E chi sono poi questi altri per me? E io per loro? In rete viene inscenata molta emotività, ma essa non aiuta la prossimità. È tutto uno spazio di differenze dove la condivisione dello stato di bisogno può solo essere una tangente, un contatto singolare tra solitudini. Meglio: dove non è possibile distinguere se si tratti di un’interazione per la prossimità o di scambio strategico.
9) Nello spazio virtuale è possibile coesistere da prossimi senza darsi troppo fastidio, ma chissà anche lì quanto può durare. Nello spazio reale i prossimi dovrebbero poter con-vivere. Ma in tal caso dovrebbero costruire insieme lo spazio della prossimità. Prossimi sono quelli che co-abitano e co-operano. Sappiamo quanto difficili e precarie siano queste pratiche sociali, segnate fino in fondo dalla costitutiva socievolezza insocievole. Per far fronte alle emergenze che ne derivano mobilitiamo tanta giustizia e tanta carità, che però sono anch’esse risorse finite. Presto la prossimità divide, si aprono crepe, ci si allontana, si diventa lontani.
10) Alla fine, se devo scegliermi il prossimo, o se il prossimo mi capita, preferisco che sia l’estraneo. Gli sguardi d’intesa tra estranei, non membri della stessa comunità, sono la rifondazione della socialità e quel tanto di giustizia e di carità che si concedono reciprocamente in quel momento sono la ricarica di tante offese, obbrobri, violenze inflitte alla prossimità.
11) Temi il prossimo tuo come te stesso è il motto iscritto sulla porta della solitudine ricercata e costruita. La ricerca dell’isolamento – tra mura domestiche, recinti di villettopoli, auricolari in autobus – è un imperativo nella società di massa, per non annegare nell’indistinto. Un tempo la solitudine era un premio alla virtù e l’isolamento deliberato era concepito come modo di percorrere la scala del perfezionismo spirituale. Gli anacoreti contemporanei stanno in mezzo alla folla, percepita come massa ostile di estranei. Nessuno lì può, deve, essere prossimo. L’esperienza dominante diventa quella della distanza impercorribile. Paradossalmente da dentro quella distanza avviene la selezione o l’elezione del prossimo.
12) Da temere ed evitare il prossimo a odiarlo il passo è lungo, ma non incolmabile. Il prossimo ricorda che la socialità è un fastidio, un onere, almeno una remora. In breve, ci ricorda che il prossimo è il sociale, senza tanti qualificativi. Ma l’io contemporaneo aborre nel suo narcisismo ogni riferimento all’altro, e il prossimo è l’altro all’ennesima potenza. Quindi il prossimo è anche la terapia – che come dicevo sopra può essere o occasionale o deliberata – delle tentazioni autoreferenziali dell’io. Se questo può diventare sé sociale e quindi multiplo, forse in tale molteplicità ritroviamo legami sociali e quindi l’opera poco visibile delle tante prossimità che si sono conservate, malgrado tutto, cioè noi malgrado.
13) Ma la prossimità è a rischio quando i prossimi sono troppi o troppo presenti. Come quando oggi siamo sollecitati da ogni parte ad assumere la responsabilità verso il prossimo. Semplicemente non ce la facciamo. In verità abbiamo poco da dare e certo non basta per tutti. Selezionare è crudele e ingiusto, ma è ciò che facciamo ogni giorno. Ci allontaniamo da molti, avvicinandoci a qualcuno. Possiamo solo contare su una selezione intelligente seguendo i criteri guida della prossimità: giustizia e carità.
14) La prossimità è pro-sociale. Ma possiamo forse escludere tutto il resto che ci circonda? Lo sapevamo da tanto tempo e lo riscopriamo oggi che anche in rapporto alla natura siamo prossimi: alle forme della vita e perfino alle forme della materia, e qui come non ricordare san Francesco? Con il dominio sulla natura abbiamo posto una distanza incolmabile tra noi soggetto ed essa oggetto. Questo abisso lo dobbiamo recuperare e presto, per lo stato di necessità in cui ci troviamo e per la condizione umana più felice in cui potremo poi trovarci. Abbiamo costretto la natura a esserci matrigna, poiché non abbiamo riconosciuto che era il nostro prossimo e noi il suo. Oggi chiamiamo tutto questo biofilia, una nuova figura della prossimità. Che non fa torto all’altra e più sociale, ma ne è il complemento indispensabile.
15) E così, per chiudere questo intervento teso tra poli spesso incommensurabili, risulta che la prossimità del prossimo è un bene comune fondativo e risorsa di ogni interazione. Qualcosa che si condivide senza volere e che si riceve senza merito, ma che si ha l’obbligo di preservare con cura. Forse la grazia è solo questa capacità involontaria di farsi prossimo e di farsi riconoscere dall’altro come tale? Perciò la leggo non come dono dall’alto, ma come virtù umana del riconoscimento. La trascendenza che cerchiamo è quella che ci riconduce al legame sociale. E la sua sacralità, se c’è, consiste nella nudità del contatto tra estranei che si fanno prossimi. Prossimi non si nasce, ma si diventa: su questa terra. Carlo Donolo |