5 novembre 2015

Anche per le colf sussiste il divieto di licenziamento in gravidanza

Lavoro come collaboratrice domestica presso una famiglia di anziani e ho da poco saputo di essere in gravidanza: il datore di lavoro può licenziarmi?

Ha fatto molto scalpore la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 2 settembre 2015 n. 17433, rimbalzata tra i network in rete come la dichiarazione da parte della Suprema Corte di una assoluta liceità del licenziamento delle lavoratrici domestiche in gravidanza.


In realtà la Corte di Cassazione ha semplicemente rilevato come il divieto di licenziamento non è previsto dalla legge come illecito, in quanto l'art. 62 della Legge 151/2001, di tutela della maternità, esclude le lavoratrici domestiche da quella particolare tutela che vieta ai datori di lavoro il licenziamento dall'inizio della gravidanza fino ad un anno di età del bambino. Così come del resto le dimissioni in gravidanza non sono assistite da quella particolare tutela che impone la “convalida”, con apposita dichiarazione presso la Direzione Territoriale del Lavoro, per le lavoratrici nel settore imprese.
 
Ciò però non significa che il licenziamento della lavoratrice in gravidanza sia “lecito” e manchi di ogni tutela.
 
Innanzitutto è il Ccnl che prevede il divieto di licenziamento: l'art. 24 recita “Dall'inizio della gravidanza, purché intervenuta nel corso del rapporto di lavoro, e fino alla cessazione del congedo di maternità, la lavoratrice non può essere licenziata, salvo che per giusta causa”.

In secondo luogo, il sistema normativo vigente, comprensivo dei principi costituzionali di tutela della famiglia e della maternità (art. 31) nonché di parità di trattamento (art. 37), prescrive la realizzazione di una tutela sostanziale della lavoratrice in gravidanza, che passa necessariamente dal divieto di licenziamento: proprio sulla base di questi principi sia la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 86/1994, sia la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 6199/98, hanno avuto modo di sottolineare che la specialità del rapporto di lavoro domestico, legata al fatto di essere destinata a soddisfare le esigenze domestiche del datore di lavoro e della sua famiglia, non vale ad escludere in modo assoluto ed aprioristico l'applicabilità la normativa dettata per il lavoro nella impresa, e in particolare quella sulla tutela della maternità.
 

 
Esiste infatti una regola generale di protezione, di cui all'art. 2110 cod. civ., che impone, in assenza dell'applicabilità di normative speciali, come appunto la Legge 151/2001, la sospensione dell'obbligo della prestazione di lavoro e il diritto alla conservazione del posto, due elementi riconosciuti come indispensabili per assicurare l'effettiva tutela della lavoratrice in gravidanza, come del resto previsto da molte convenzioni internazionali ratificate dall'Italia, da ultimo la Convenzione Ilo C189 del 2011, e prima ancora la Convenzione Ilo C103 ratificata nel 1970, cui si affianca la Direttiva 76/207 sulle pari opportunità, nonché la Carta Sociale Europea ratificata nel 65.
 

 
In definitiva, pur se non espressamente previsto dalla Legge 151/2001, vige un divieto di licenziamento in gravidanza anche per le lavoratrici domestiche, che si differenzia da quello delle altre lavoratrici esclusivamente per la durata, e che viene pacificamente identificato con il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro o congedo di maternità, per evidenti ragioni di equità e parità di trattamento.