21 febbraio 2018

Bruni, riflessioni di una ex-datrice di lavoro

Segnaliamo questo articolo di Federica Bruni, assistente sociale di Padova, che esprime alcune considerazioni - proponendo anche alcuni suggerimenti - sul ruolo delle badanti, partendo dalla sentenza n.24 del 2018: 
Sentenza n.24 del 4 gennaio 2018, la Cassazione estende il diritto di riposo giornaliero anche alle collaboratrici familiari, le badanti. Tra un turno e l’altro devono esserci 11 ore consecutive di non-lavoro, come per tutti gli altri lavoratori dipendenti. Un’unica persona non potrà più garantire il servizio che solitamente svolge una badante.
Nato in Italia e diffuso nei paesi sud europei, dove lo Stato e il Mercato lasciano il passo alla famiglia, questo modello di cura delle persone anziane potrebbe essere al capolinea, e non solo per i limiti posti da questa sentenza. Quante siano le badanti, è complesso da capire: due su tre non hanno un contratto in regola, e molte di loro sono assunte come colf, pur svolgendo lavori di assistenza. La Fondazione Moressa parla di 375.000 badanti, che nel 2030 diventeranno 470.000. IRS, Istituto di Ricerca Sociale, nel 2015 ne conteggiava 830.000, perché includeva tutti i lavoratori domestici noti all’INPS. Secondo tutte le fonti, il numero delle badanti risulta in crescita, tendenza che ha preso avvio prima della crisi e non dipende quindi dalla disponibilità sul mercato di persone espulse da altri settori del lavoro. La numerosità degli anziani, l’aumento della speranza di vita, costituiscono uno scenario garantito di allargamento del bisogno assistenziale.
Chi ha avuto la necessità di affiancare una badante al proprio anziano sa che, grossomodo, deve disporre di 2.000€ al mese, considerando il costo delle sostituzioni e il costi fissi dell’abitazione. È il prezzo della domiciliarietà, una tipologia di servizio ad alto valore aggiunto, quello del “sono nella mia casa”.

Ma voglio segnalare un paio di criticità preesistenti alla sentenza di gennaio, che mostrano alcuni limiti di questo servizio.
La prima riguarda l’impatto che questo modello ha sui prestatori di lavoro.
So cosa sono gli orfani bianchi, i figli della nostra badante lasciati in patria, ragazzi che rischiano di perdersi in un mare di dolore e pacchi dall’Italia contenenti vestiti, giochi, cellulari e mille altri oggetti che non spiegano perché la mamma non può tenerli con sé, e perché, se lo fa, i soldi saranno sempre troppo pochi per vivere tranquilli. Ho visto il fenomeno della “sindrome Italia”, il nome dato alla depressione che colpisce chi lascia ed è lasciato per motivi di lavoro, chi si prende cura di estranei, sapendo che il tempo non gli verrà restituito per prendersi cura dei propri cari. Non sopporto l’anomalia di un lavoro che, al di là dei legami affettivi che può consentire, solo oggi riconosce il diritto di una pausa congrua, compatibile con una vita normale. E questo lavoro nel 2007 aveva una retribuzione oraria media di 5,48€, crollata a 3,84€ nel 2014.
La sentenza della Cassazione rischia di dare spazio ad un ulteriore degrado di questo lavoro, perché rischia di essere estesa anche al riposo obbligatorio, quella pratica apparentemente innocua del pagamento in nero delle 2 ore giornaliere previste per la pausa.
Nel migliore dei casi, sono le stesse badanti a chiederlo, e per le famiglie è una grande semplificazione, ma in questo modo le lavoratrici riducono ulteriormente le loro energie e il contatto con un progetto di vita autonoma. Il loro progetto migratorio resta ancorato ai soldi che possono mandare “a casa”, con buona pace dei valori affermati dalla nostra Costituzione, il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita politica, economica e sociale.

Ma anche sul versante dei datori di lavoro ci sono sbilanciamenti.
Il potere datoriale è, dicono i testi, “direttivo, di controllo, disciplinare”, ma nessuna di queste attività è praticabile. Come posso io “non tecnico della cura” dare direttive sulla cura? Sì, viene dato l’elenco delle incombenze quotidiane, le buone abitudini, le medicine da somministrare … ma il cuore della prestazione è in mano ai personali e discrezionali talenti della badante, alla sua intelligenza, alla sua cultura. Può aver frequentato corsi o può avere un titolo di studio conseguito in patria, ma io, datore di lavoro che non so niente, quali direttive saprò dare? Ne consegue che il “controllo” potrà essere solo “di processo”, l’azione di spuntare una check list: la minestra è stata servita, ma chi può dire se era buona? Come controllare se c’è un occhio attento a nuovi sintomi, peggioramenti? Se la televisione è rimasta accesa tutto il pomeriggio o solo stasera? Se hanno dialogato, se mia mamma viene trattata come una bambina o una adulta? Quanto ai provvedimenti disciplinari, il massimo può essere una contestazione verbale, senza la certezza di capirsi né tanto meno quella di correggere ciò che non va, visto che sempre nuove e imprevedibili sono le vicende umane. Infine, non mi vengono in mente sanzioni che abbiamo senso in questo particolare rapporto di lavoro e vita insieme.
Nonostante tutto, le esperienze positive non mancano, numerose famiglie e altrettante lavoratrici hanno belle esperienze e ricordi ricchi di umanità, con legami che permangono anche dopo il servizio svolto. Possiamo imparare moltissimo dalle badanti, da loro vengono osservazioni lucide e puntuali sulle nostre famiglie, aspetti che noi, immersi nella situazione, non sappiamo vedere.
Io però mi auguro che la risposta al nostro bisogno di assistenza prenda altre forme, più rispettose di tutti gli attori coinvolti. Vorrei andare al di là del “cerino” che passa da una mano all’altra, solitamente da una mano femminile (figlia, nuora, nipote) ad un’altra (badante).
Alcune idee, niente di nuovo e niente di risolutivo, ma in qualche modo va imboccata, questa strada verso un nuovo welfare:
1. Garantire un segretariato sociale attento a chi non è ancora nel “sistema”. Quando le famiglie chiedono aiuto, viene avviata la procedura della SVAMA, Scheda di Valutazione del bisogno assistenziale, a partire dai dati di medici, sociali, infermieristici. Il vero bisogno si manifesta però molto prima. La famiglia ha bisogno di ragionare sulla situazione, valutare soluzioni, conoscere soggetti e servizi. Se la visita dall’Assistente Sociale si limita alla analisi dell’ISEE e dei servizi finanziati, senza alcuna connessione con servizi, reti di famiglie, esperienze in atto, allora tanto vale affidarsi ad una pagina web. Inoltre, una consulenza di questo tipo consentirebbe al Comune di avere un osservatorio sull’invecchiamento, una ricognizione sulle risorse con la possibilità di metterle in relazione e, soprattutto, la possibilità di svolgere un ruolo di regia nello sviluppo del sistema welfare locale (con uno sguardo alla Grande Padova)
2. Applicare la Legge Regionale 3 del 2015, che disciplina l’affido a favore di anziani e altri soggetti fragili, cioè aumentare le soluzioni “leggere”, che valorizzano le relazioni di quartiere, con orari e modalità effettivamente utili rispetto ai tempi e alle disponibilità della famiglia. Le esperienze di affido, cioè l’ospitalità non residenziale, permettono di ridurre l’isolamento delle persone anziane e promuovere l’invecchiamento attivo. Il Servizio Sociale avrebbe un ruolo di supervisione sugli “affidatari” e di raccordo tra le famiglie e l’intero sistema dei servizi.
3. La collocazione di piccole Case di Riposo/Centri Servizi nei quartieri, per la gestione di situazioni di parziale autosufficienza, integrando domiciliarità e residenzialità. Il 70% dell’offerta residenziale per le persone non autosufficienti è gestita dalle IPAB, enti privati che da 15 anni attendono una riforma. La riforma potrebbe permette di valutare nuovi servizi, riequilibrare le risorse disponibili, e diversificare i costi a carico delle famiglie.
Dedico queste riflessioni a Nadia, coraggiosa e semplice donna che si prende cura di mamma, papà e tre zii. Uno di loro a casa, gli altri dislocati in due Case di Riposo, un Centro Diurno e, per un periodo, un Centro di Riabilitazione al Lido di Venezia. Ha lasciato il lavoro come operaia per occuparsi di loro, mi chiede “e quando sarò vecchia io, senza pensione, come farò? Be’, comunque c’è da fare, si fa”. Non sa di citare un’altra semplice eroina, la protagonista di “L’Agnese va a morire”, un’altra donna che, nella routine quotidiana come nella tragedia della guerra, non si pone tante domande, e “fa”.

I dati riportati in questo post provengono dai siti di: Regione Veneto; Domina Associazione Nazionale Famiglie Datori di Lavoro Domestico; Acli Colf; Associazione La Bottega del Possibile; Associazione Anziani a Casa Propria