1 febbraio 2012

Chi bada alle badanti?



Un tempo c’erano le cameriere nere e le signore bianche, come racconta il film The help, ambientato nell’America razzista degli anni 60. Oggi ci sono donne venute da Paesi lontani, che hanno lasciato lì i figli per venire a servizio qui. Un lavoro usurante? Seguiteci in questo viaggio nelle nostre case. Perché puoi sopravvivere a un marito imperfetto, ma non a una colf incompetente

di Alessandra Di Pietro - foto Luca Zanetti
Serve una parola per dire esattamente chi è Nina, ma non la trovo. Colf, collaboratrice familiare o domestica esprimono bene il nostro contratto di lavoro ma non evocano l’affetto che ne fa una amica per me e una zia per i miei figli. Cameriera non appartiene alla mia educazione (mia madre non ne aveva) e dunque mi imbarazza usarlo, governante fa ridere entrambe, donna di servizio non è esauriente. Forse tata rende bene per i miei bambini ma non per me. Non trovo un nome calzante, eppure questa è l’indispensabile relazione che mi permette di fare il mio mestiere, tenere l’ordine in casa, indossare abiti stirati, avere il frigorifero pieno di verdure pulite, contare su una mano di aiuto nella gestione della vita familiare, sempre. Sì certo, c’è un papà ed è molto presente (anche se nel mio caso vive in un’altra casa) ma il fatto è che la donna con cui dividi il lavoro di cura o che in esso ti sostituisce è il tuo alter ego. So che siamo in molte a pensarla così: puoi sopravvivere a un marito imperfetto, ma non a una colf che non sa fare il suo lavoro, perché altrimenti la tua vita diventa un inferno, specie se ne dipendi tutti i giorni. E soprattutto se ne sono coinvolte le relazioni affettive.

Chiamale, se vuoi, emozioni
Per occuparsi dei bambini e degli anziani bisogna mettere in gioco l’amore. Non c’è un altro modo possibile. Era così persino nel Mississippi della segregazione razziale negli anni 60, dove è ambientato The help, il bel libro di Kathryn Stockett (Mondadori) da cui è tratto l’omonimo film (molto emotivo, portatevi tanti kleneex) di Tate Taylor con Emma Stone. In queste case dove le cameriere usavano solo bagni separati (in alternativa trattenevano per otto ore), Minnie e Aibeleen, le protagoniste, concordano: «Alla fine ami ognuno di quei bambini bianchi che cresci anche se sai che da grandi diventeranno come i loro genitori» (leggi razzisti). Però: «La relazione emotiva è spesso una trappola per i lavoratori, un modo per chiedergli sempre di più e gratuitamente, dunque separare lavoro e affetto è consigliabile» mi avvisa Sara Picchi, ricercatrice junior della Fondazioni Brodolini che si occupa in particolare di politiche di long term care (cure a lungo termine). 



«Succede soprattutto nella cura delle persone anziane che è in costante aumento e, per definizione, crea tensioni perché la badante gestisce anche le inquietudini e la solitudine della persona malata e assistita». E spesso l’accompagna fino alla morte. Secondo l’European foundation for the improvement of living and working conditions, il lavoro di cura con gli anziani è usurante e spesso fonte di esaurimento che causa un ritiro anticipato dal mercato del lavoro. Chi bada e soccorre i badanti? Nessuno. Anche perché spesso sono clandestini, dunque per legge non esistono


Così lontani, così vicini
The help racconta di donne a servizio per otto ore al giorno con paghe da fame e senza assistenza sanitaria, cameriere a cui si ordina un sandwich senza dire per favore né grazie, licenziate su due piedi per il sospetto di un furto, guardate con occhi cattivi perché amatissime da figli lasciati nelle loro braccia.
Oggi non c’è una segregazione razziale per mano della legge ma la situazione è davvero così tanto diversa? Quanti lavoratori domestici non hanno un contratto, in nero dormono su una branda, sono sfruttati oltre ogni limite orario? Con un plus. In The help la cameriera alle quattro prende un autobus e torna a casa sua, dai propri figli. Quante delle nostre colf non possono farlo perché i loro li hanno lasciati dall’altra parte dell’oceano? Le due sociologhe americane Barbara Ehrenreich e Arlie Russell Hochschild in Donne globali. Tate, colf e badanti (Feltrinelli) lo hanno detto senza mezze misure: dietro ogni donna in carriera ce n’è un’altra dalla quale dipende l’organizzazione della casa e la serenità dei bambini, ripara al fallimento nella divisione dei lavori di cura con gli uomini, permette a noi di fare carriera. Non per caso Gloria, 40 anni, funzionaria di banca che si occupa di filiali all’estero e quindi è spesso fuori Italia, ama dire che quando ha deciso di mettere al mondo i figli «prima ancora del padre ho scelto con accortezza una tata: giovane, europea e senza famiglia. Perché sapevo che fare allevare i miei pupi a una donna che aveva dovuto lasciare i suoi mi avrebbe causato eterno rimorso».
Marianna, insegnante di matematica, moglie di un medico, tre figli tra i 20 e i nove anni, invece ha ingaggiato dieci anni fa Rose, 35 anni, filippina, madre di due bambini, stringendo un accordo: «Rose torna a casa ogni anno per un paio di mesi e arrivano in sostituzione il marito o la cognata, così loro hanno sempre un reddito e io non resto senza aiuto». In questo turnover, però, Rose che sa cucinare, dipingere e creare delle bellissime bambole di pezza, non ha mai il tempo di imparare l’italiano come vorrebbe né di fare un corso di pittura. E, chiosa Marianna «quando torna dalle Filippine è triste per almeno un paio di mesi».


La geografia della cura è globale
È sacrosanto prendersi cura di quel che accade nelle famiglie di origine dei nostri aiuti familiari. Però bisogna pur considerare che i grandi flussi migratori hanno cambiato la struttura sociale e ogni Paese sta reagendo in modo diverso. L’Ucraina tenta di scoraggiare (anche se con scarso successo) l’emigrazione, ad esempio rifiutandosi di sottoscrivere accordi per il reclutamento di assistenti familiari all’estero. In Ecuador, invece, la Costituzione approvata nel 2008 stabilisce l’obbligo dello Stato di proteggere la famiglia transnazionale ed è attiva la Segreteria nazionale del migrante, che favorisce la comunicazione tra la famiglia divisa. La Romania ha approvato alcune leggi per promuovere il monitoraggio e la presa in carico da parte dei servizi sociali locali dei minori lasciati in patria e nascono nuovi Centri per gli anziani con rette fino a mille euro mensili rivolte a famiglie di migranti. Ne scrive Flavia Piperno sul web magazine Ingenere che conclude: «I Paesi occidentali dovrebbero sostenere i Paesi di origine, da cui traggono manodopera da destinare alla cura, a migliorare l’impatto delle migrazioni sul welfare locale». Chiosa Sara Picchi: «L’Istituto di ricerca sociale (2009) stima che le famiglie italiane per pagare gli addetti al lavoro di cura spendono più di nove miliardi di euro l’anno (pari al 7 per cento della spesa sanitaria delle Regioni). Questo consente un risparmio pubblico per mancate prestazioni assistenziali quantificato dal ministero del Lavoro in sei miliardi di euro nel 2007». Guardo Nina e penso che non è solo una colonna della mia vita ma anche un pilastro di questo Paese dove lavora da 16 anni, ma né lei né sua figlia, nata qui otto anni fa, sono ancora cittadine. Le chiedo se lei ha rinunciato a un sogno per fare questo mestiere (e me ne vergogno perché non gliel’ho mai chiesto prima): «Sì, volevo studiare Economia. Però, quando il bambino di cui mi occupavo è diventato grande e potevo riprendere gli studi, è nata mia figlia. A quel punto o trovavo un lavoro flessibile oppure dovevo prendere anch’io una baby sitter!». È vero, siamo tutte sulla stessa barca e legate tutte da un unico filo. È così che prima o poi troveremo nuovi e più larghi orizzonti.

Il peso della casa
Secondo l’Istat il monte ore di lavoro domestico femminile è triplo rispetto agli uomini e il divario non si riduce di molto se la donna è occupata. Il 63 per cento delle madri lavoratrici non riceve alcun aiuto in casa. Tra chi lo ha, nel 52 per cento arriva da una colf, nel 25 per cento dai nonni e solo nel 17 per cento dal partner. Tra le colf, solo una su quattro è italiana secondo le stime Acli Colf. Secondo Inps-Caritas (2011) i lavoratori domestici iscritti all’Inps sono 480mila ma, aggiungendo gli irregolari, si arriverebbe quasi a 800mila. In Europa almeno il 19 per cento del lavoro domestico è in nero (Statewatch.org, Report domestic workers 2011). E, se in Italia e Francia la legge indica gli standard di trattamento in caso di vita in comune, tali regole non sono nemmeno previste in Grecia, Ungheria, Polonia e Svezia (Oecd, Rapporto Help wanted?)